Interviste

Francesca Fioretti rompe il silenzio dopo 7 mesi

Sono passati 7 mesi da quel tragico 4 marzo, giorno in cui Davide Astori, capitano della Fiorentina, perse la vita in una camera d’albergo. Quel giorno la Fiorentina avrebbe dovuto affrontare l’Udinese. E’ mattina, solitamente Astori è uno dei primi a scendere per fare colazione, ma quella mattina evidentemente ha voluto dormire 5, 10, 15 minuti in più. Niente, Davide non scende. Pioli, che era già giù, per fare colazione, viene avvertito dal team manager della Fiorentina ma in quel momento nessuno aveva capito cosa fosse successo. Sportiello era già nella stanza di Astori, aveva già realizzato tutto. Arriva Pioli, incredulo, si autoconvince che stesse ancora dormendo, ma non è così. Vengono avvertiti tutti gli altri compagni di squadra, in albergo calano i pianti, lo sconforto e il silenzio. Quel silenzio che Francesca Fioretti ha tenuto per lunghissimi ed interminabili 7 mesi.

La forza di Francesca

La moglie del capitano viola ha voluto raccontare il suo stato d’animo, la sua sofferenza e la vita di Vittoria, sua figlia e di papà Davide, parole che sono arrivate ieri, nella giornata in cui l’Italia ha battuto la Polonia nella terza partita di Nations League con un goal di Biraghi, compagno di squadra di Davide, che al goal ha subito alzato le mani al cielo, dedicandogli il goal vittoria.

Ecco le parole di Francesca:

“Il 5 Marzo ho accompagnato Vittoria a scuola e sono andata dalla psicologa dell’infanzia. Ho voluto mantenere la routine quotidiana di sempre. Nemmeno la cosa più tragica che poteva mai accadermi doveva destabilizzarla. Non devo vivere il mio dolore attraverso di lei, non deve vedermi triste né disperata. La sua serenità dipende dalla mia. Davide, per quanto io stia male, non deve diventare un tabù, qualcosa di cui non si può parlare. Vittoria sa che lui non tornerà, ma lo abbiamo collocato in un luogo immaginario in cui è felice. Il vuoto che ha lasciato Davide non ci deve inghiottire. Devo fabbricare le ali con le quali Vittoria possa volare nella vita.

Soffocavo il dolore in modo che l’armonia che c’è sempre stata tra noi tre potesse rivivere, anche se purtroppo lui non ci sarebbe più stato. Subito dopo sono andata dalla psicologa infantile, perché sentivo che era necessario quel tipo di supporto. Dal primo momento mi è stato chiaro che Vittoria non avrebbe mai dovuto essere la spugna delle sofferenze degli altri, e tantomeno delle mie. Io so che tutti le vogliono un bene infinito, ma non so quanti possano avere la forza di non farle leggere negli occhi la sofferenza, e per me evitare questo è fondamentale.

Io e lei insieme sapremo colmare il vuoto che si è creato riempiendolo con tutti i ricordi e le immagini di noi e del breve ma intenso periodo che abbiamo condiviso. Questo penso sia l’unico regalo e l’unico modo con cui posso accompagnarla nel futuro. Quando ora l’addormento la sera, vedendola serena, sento che sto facendo le cose giuste e mi impegno perché il vuoto non sia il riflesso dei miei pensieri. Non è un dovere. È l’augurio che io faccio a me stessa: potermi ancora meravigliare della vita e farmi sorprendere dalle emozioni.

Ci siamo conosciuti a una festa, ci legava la passione per i viaggi. Siamo andati in India, in Nepal, in Perù, in Giappone. Sembravamo due adolescenti, fra treni e autobus. Dopo un controllo fatto in Perù ci dissero che avevamo perso la nostra bambina e invece, tornati a Roma, abbiamo scoperto che andava tutto bene. In quel momento Davide si convinse che era femmina. E per questo decidemmo di chiamarla Vittoria. Prima del viaggio in Perù scoprii di essere incinta. Dopo un controllo fatto lì ci dissero che avevamo perso la nostra creatura e invece, tornati a Roma, abbiamo scoperto che non si era mossa, era lì ad aspettarci. Davide allora si convinse che era femmina. “Se è così forte, non può che essere una bambina”. E per questo decidemmo di chiamarla Vittoria.

Io guardo Vittoria e so che il mio dovere è trasmetterle serenità e felicità, in questo caos. Ogni tanto penso che senza di lei forse avrei potuto gestire più facilmente il mio dolore. Sarei andata lontano, dove nulla mi riportava nel gorgo. L’amore di mia figlia è l’unica cosa più forte del mio dolore. Così deve essere. Devo riuscirci. Ora la mia vita deve ricominciare. Ce la metterò tutta. Di una cosa sola sono certa. Di avere reso felice Davide nel tempo che abbiamo vissuto insieme. Nei momenti di sconforto penso che il destino con noi sia stato davvero ingiusto, ma sono disposta a sostenere il peso del dolore perché se non avessi incontrato Davide non ci sarebbe stata la gioia del nostro amore che ha reso possibile che lui si realizzasse e completasse come uomo e come padre. Se ne è andato, ma era nel momento più pieno e felice della sua vita, e se il mio dolore deve essere il pegno da pagare per questo, lo potrò sopportare per sempre“.

Mario Mescia

Giornalista Pubblicista. Laureato Magistrale in Filologia, Letterature e Storia presso L'Università degli Studi di Foggia. Appassionato di scrittura, segue l'ambito sportivo, in particolar modo il calcio.

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Mario Mescia

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