Foto di astrild da Pixabay
Guerra, ospedale, bambini mutilati, amore per il calcio. Cos’hanno in comune queste parole? Un gioco da tavolo chiamato biliardino. Partiamo da una premessa. Non sappiamo, con certezza, chi sia il reale inventore del biliardino perché i cenni storici a riguardo ci forniscono indicazioni, nomi e brevetti tutti differenti l’uno dall’altro. Sappiamo però che la sua invenzione (salvo la versione francese che la anticipa di addirittura un secolo) è databile tra la prima la seconda guerra mondiale. In Inghilterra, per esempio, l’idea venne a Harold Searles Thornton dopo che, nel 1923, assistette ad una partita del Tottenahm; lo scopo era semplicemente quello di creare una versione “mobile” del calcio per poter giocare comodamente a casa. Lo zio di Thornton, il signor Louis, brevettò lo stesso gioco negli Stati Uniti quattro anni più tardi.
In Germania invece l’invenzione è attribuita a Broto Wachter, mentre in Francia si fa riferimento ad un operaio della Citroen, Lucien Rosengart che lo avrebbe creato per i propri nipotini già verso la fine dell’800. Questo solo per citarne i più famosi tra i tanti, come il nostro connazionale Giovan Battista Perasso (dal soprannome balilla, da cui deriva appunto la terminologia calciobalilla) oppure il belga G. Staav. Ma in questo articolo però tratteremo la parte spagnola della storia, probabilmente quella più romantica di tutta la vicenda, e più precisamente quella legata alla guerra civile spagnola del 1936 (si, proprio quella che Picasso dipinse in quel quadro che tutti conosciamo come Guernica) e del poeta Alejandro Finisterre.
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Il punto interrogativo, nel sottotitolo di questo paragrafo, è doveroso e più tardi vi spiegherò il perché. Partiamo dal principio. Chi era Alejandro Finisterre? Pseudinimo di Alexandre Campos Ramírez, era un poeta nato a Fisterra nel 1919. L’invenzione avvenne proprio nella sua giovinezza, quando nel novembre 1936 (durante la guerra civile spagnola) rimase ferito durante i bombardamenti di Madrid e ricoverato in un ospedale prima a Valencia e poi a Montserrat; proprio qui Finisterre conobbe numerosi bambini mutilati, in particolare agli arti inferiori. Dettagli che, molto probabilmente, scaturì in lui un pensiero: “nessuno di loro avrebbe potuto più giocare a calcio”. Ecco allora l’intuizione, il futbolìn, un tavolo da tennis ‘modificato’ e realizzao da un suo amico, il falegname Francisco Javier Altuna.
L’invenzione di Ramìrez venne registrata e brevettata nel gennaio del 1937 a Barcellona (come vedete molto tempo dopo rispetto ai brevetti documentati dell’inglese Thornton). Insieme al biliardino Finisterre brevettò anche un voltapagine a pedale per i pianisti ma, leggenda vuole, che i documenti che attestavano il brevetto andarono perduti durante una tempesta, quando il poeta stava fuggendo attraverso i Pirenei per sfuggire alla vittoria franchista. C’è però un punto cruciale: chi ha conosciuto Finisterre ha detto di lui che, di tanto in tanto, “le sparava grosse”.
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Tuttavia, giunti a questo punto della storia, è doveroso menzionare Alessio Spataro, autore del volume “Biliardino” che, in un’intervista a fumettologica.it, ha dichiarato: “In realtà, per tante cose lui (Finisterre, ndr.) è l’unica fonte di se stesso. Per altre cose, come ad esempio la paternità del biliardino, invece ci sono tanti testimoni che confermano la sua versione. Purtroppo non si trovano i documenti che lo attestano, e come appunto in altri casi – come quello citato prima – le testimonianze sono divergenti, spesso opposte. Il punto su cui tutti coloro che lo hanno conosciuto concordano è che sostanzialmente era un intrallazzatore, un furbastro, una persona estremamente abile a districarsi nelle situazioni d’emergenza”.
Insomma, che non sia lui l’effettivo inventore ne abbiamo parlato nella nostra premessa. Ma come per tante cose, a quel tempo, è un po’ difficile capire chi sia stato il primo e chi abbia soffiato l’idea a chi. Mi piace però pensare che questo gioco spensierato, che a noi tutti ricorda l’infanzia e le partite col papà, il nonno, gli amici, sia nato con un nobile scopo: donare spensieratezza ai bambini che vivevano l’orrore della guerra, specie quelli che – purtroppo – non avrebbero mai più potuto calciare un pallone con le proprie gambe.
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